mercoledì 9 marzo 2022

OMAGGIO A NAPOLI (marzo, 2022)

 Omaggio a Napoli


Pasquale ha un carattere schivo, poi, tra amici, si rilassa,si illumina, con la battuta vivace, ironica, con quei eh!, che!, da napoletano.

Già Napoli, la città più bella del mondo, come disse persino Caravaggio durante un suo soggiorno, e Pasquale e Iole, per me, sono Napoli, sono Napoli anche oggi qui, in questa terra di Siena, bellissima, ricca di arte e di storia come questa Certosa.

Le serate, le cene a casa loro sono un continuo evocare questa città, le cene golose, quella degli auguri, con l'aperitivo davanti al presepio e la pasta crescia e alla fine il dolce, la pastiera e in mezzo..in mezzo c'è Napoli, gli odori e i colori di Napoli. Ma non c'è solo il piacere del palato, così gratificante, ma anche quello dell'animo e della mente.

Così le immagini e e i riferimenti a Napoli si affastellano, si rincorrono disordinatamente.

Parlavo degli auguri davanti al presepe e come non ricordare  "Natale in casa Cupiello" e il grande Edoardo: "Tommasì te piace o' presebbio?" "Nun me piace", poi la mente va a"Filumena Marturano", la forza e la drammaticità di Titina e Sofia Loren: "I figli so piezze e core".

Le immagini si susseguono, ecco Totò, "A livella", la poesia scritta scritta e amata da questa grande maschera "Chi ha avuto tanto, chi nun ave niente".

Barbara, l'estate scorsa, ha coinvolto Pasquale nel suo spettacolo, devo dire che l'aplomb teatrale non gli manca, mia madre avrebbe detto "E? lo stile del Sud". Così, ha recitato "Nu pianoforte è notte" di Salvatore di Giacomo, la magia della notte, la luna e la musica del pianoforte.

Ormai lo avete capito: questo è un omaggio a Napoli, ma ci vorrebbero dieci volumi.

Così dalla poesia alla musica è uno scorrere continuo; c'è solo questa città famosa nel mondo per la sua musica, la sua canzone: Caruso con la sua "O sole mio"  la tradizione; Carosone con "o Sarracino", "Torero", un'esplosione di allegria; "La tammurriata nera" e Beppe Barra, cupa, orientale; Bennato, contemporaneo, aggressivo "Vendo Bagnoli, vendo Bagnoli con le ciminiere!".

Ecco il cinema "Non ci resta che piangere", già .. Troisi.

Massimo Troisi e Pino Daniele insieme hanno cantato "o sape comme fa o' core", a loro quel "core" ha fatto un brutto scherzo.

Ma nel "core" c'è sempre Napoli, ma cos'è Napoli? "Napul'è...mille culure... mille paure".





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giovedì 23 gennaio 2014

LE ZEPPOLE DELLA VIGILIA

Le zeppole della Vigilia.

 I ricordi di Camilla sono tanti, sono tutti testimonianze della sua personalità e grande generosità. Tutti sono legati da un filo conduttore, il cibo, la cucina, di cui era maestra ed allora, come dimenticare la vigilia delle zeppole! La vigilia di ogni Natale a pranzo, la sua casa ci accoglieva tutti, la grande famiglia con mogli, mariti, talvolta ex mariti e nuove mogli e figli, ex colleghi, la preside e così via. Era un “open house”, perdonatemi l’anglismo, chi arrivava prima, chi dopo, la maggior parte non si vedeva dalle zeppole dell’anno prima. Le frasi di rito:” Come stai bene! “,”  Ho saputo che hai un nipotino! “ ecc. Poi c'erano i presepi, quello napoletano, che ogni anno si arricchiva di nuovi personaggi, ambulanti dal viso grottesco e paonazzo che gridavano per decantare  la bontà della loro merce e poi quello di corda e tela di sacco fatto da Camilla, con la sabbia del deserto egiziano per le oasi e i sassolini presi in Sardegna per delimitare i sentieri.
Tutti in piedi intorno alla tavola imbandita, col bicchiere in una mano e l’altra che afferrava con ansia golosa ora la tartina, poi una fetta di pizza salata e  quella con la scarola. Tra un assaggio e l’altro arrivavano le zeppole che Camilla friggeva, prima salate con le alici, poi dolci con l’uva passa. Camilla andava e veniva dalla cucina  e  noi  naufragavamo in quell’ odore familiare e rassicurante. Dopo i dolci natalizi ci riunivamo intorno all’ albero, Camilla scartava i regali e ad ognuno dava un piattino di dolcetti fatti da lei, piccoli bocconi paradisiaci di noci, mandorle, glasse bianche e di cioccolato, proprio il piattino delle delizie. Poi lentamente gli amici cominciavano ad andare via, si salutavano e andavano alla ricerca dei cappotti, tutti si davano appuntamento per l'anno seguente. “Ciao!” “Auguri!” “Ciao Camilla!”
Ciao… 




venerdì 19 aprile 2013

Arianna's dreaming


                                   Arianna’s dreaming


Arianna parcheggiò tra la polvere del piazzale sterrato che offuscava l’aria finalmente calda. Si girò per prendere la borsa dal sedile posteriore e scorse una figura familiare, che col braccio salutava la piccola macchina che faceva manovra. Il dottor Piacentini?! Che ci faceva lì a quell’ora?
La macchina  uscì dal posto che occupava e Arianna scorse quel caschetto ramato inconfondibile: Sara, che ricambiò il gesto di saluto, col volto ed il sorriso di chi era felice.
A quell' ora si salutavano? E poi lì? Piacentini e Sara?!
Allora la realtà aveva superato la sua fantasia. Arianna abbassò il capo in avanti per non essere vista, la macchina di Sara si allontanò e Piacentini s’incamminò verso l’entrata, aveva un vestito grigio e niente cravatta, forse non l’aveva rimessa quando si era rivestito.
Arianna scese dalla macchina con la mente che correva a ciò che aveva finalmente saputo. Dunque c’era una storia, recente? Da quando?
Proprio lei, Sara, le aveva fatto notare che era un bel uomo, ma il suo modo di fare sicuro non l’aveva colpita anzi quasi respinta, poi lentamente era stata presa dalla sua dolcezza.
Sara e Piacentini erano amici da tanto tempo e Arianna pensò che quando la quotidianità li sopraffaceva, si concedevano quegli incontri, rubati al lavoro e alla vita.
Dunque era lei, Sara, che lo accarezzava, lei che baciava quel corpo, il corpo di Marco.
Ma com’era? Bellissimo, sì, ma come? Liscio come quello di un bambino o morbido e soffice come un gatto a cui fare le fusa, un cucciolo dove affondare la faccia?
L’estate precedente aveva scorto la sua ascella dal camice con le maniche corte, i peli castani lisci, e aveva pensato subito a baciarla, con un gesto lungo e lento della lingua, mentre gli teneva le braccia bloccate sul letto. “ Avranno preso il caffé insieme “ pensò. Li vide rilassati, sul letto, che si facevano le coccole e con le bocche che sapevano ancora di sesso baciato, si scambiavano dei biscottini.
  Arianna raggiunse l’entrata, pochi metri e all’ascensore se lo trovò davanti, di spalle, ultimo di un gruppetto di persone che si lamentava ad alta voce degli ascensori che non arrivavano.
“Dottor Piacentini buongiorno”
Si voltò lentamente, trasalendo un po’, le mise una mano sulla spalla: “Buongiorno, da dove arriva?“ “Dal parcheggio” “Anch’io, ma non l’ho vista” “ Neanche io”
“ No, non è vero! Ti ho visto e tu lo sai, hai ancora il suo odore addosso” , la sua mente gridava così forte che lui doveva sentirla.
L’ascensore arrivò, salirono. “Vado a prendere il numero” disse Arianna. “Sì, ci vediamo dopo” rispose lui.
 E le loro strade si separarono, ma per qualche istante avevano condiviso qualcosa di più,
molto di più.
Arianna prese il numero per la visita, poi comprò i giornali e si sedette.
Non riusciva a leggere il giornale, né i libro che aveva con sé, Caos calmo.
La sua mente andava a ciò che aveva saputo, immaginato e non riusciva a staccarsene.



martedì 8 maggio 2012

Pietro e Brenda, una storia ( d'amore )




Pietro e Brenda, una storia (d'amore)


Apprendo dai giornali che Pietro ( il governatore ) e la Brendona (Brenda) si sono conosciuti davanti ad un chiosco di fiori, lui forse comprava un mazzetto di ranuncoli per la moglie e lei delle piantine di pansé che teneva sul balcone.
Cosa è successo poi è cosa nota, ma tra gli odori e gli umori esasperati della vicenda, mi ha colpito che lui, Pietro, passava a volte le notti con lei e quindi i due hanno condiviso anche dei  gesti quotidiani come il dormire e il mangiare.
“Le fate ignoranti” di Ozpetek mi suggeriscono immagini dei loro incontri, ora da farsa, ora poetiche.
La Brendona è una trans, l’articolo femminile è politicamente corretto, anche se è una cosa che mi annoia un po’, ha dei seni enormi tra i quali lui, il governatore, si perdeva con abbandono, come un bimbo. Ma cosa mangiavano insieme, cosa gli preparava Brenda, la fasoada brasiliana? Cosa indossava per cucinare? un grembiulino a fiori e nient’altro? Mentre lo aspettava preparava una caipiriña con tanto ghiaccio, come piaceva a lui, poi preparava la tavola con le candele profumate e alla fine lo imboccava, mentre lui si sedeva sulle sue gambe. Al mattino lo svegliava col caffè, si sedeva sul letto accanto lui, un seno  le usciva dal kimono di seta verde smeraldo, mentre gli dava con la bocca dei biscottini che lui prendeva con la sua, mezzo per uno.
La moglie intanto aveva impegni di lavoro molto gratificanti e lui, Pietro, cercava la mamma ancestrale, una Lucy africana, che solo i seni di una trans possono sostituire.

Sapore di mare




  
                        Sapore di mare


Alla fine di settembre 1964, Alessandra diede il suo secondo bacio. In realtà diede anche il primo,ma se ne ricorda poco. La situazione era la stessa: Ostia, stabilimento balneare dell’esercito, dove si recava con l’amica Gabriella e il padre di lei, le cui conoscenze, un maresciallo, gli permettevano di frequentare quel luogo e di usufruire dei modici prezzi di ombrellone, cabina ecc., mentre lui era impiegato in una ditta privata, ci andavamo con la sua Simca 1000 quattro sportelli, il suo vanto.
Alessandra, anni tredici e mezzo, paffutella, non aveva ancora sperimentato le attenzioni maschili e se ne rammaricava non poco, al contrario delle sue amiche, Gabriella, quattordici anni compiuti e tutta pepe e Luciana, quasi quindici e sesta misura di reggiseno!
Bene, quel fine estate fu veramente proficuo, poteva affrontare la scuola superiore con più sicurezza, aveva baciato due ragazzi in tempi ravvicinati, non per leggerezza, ma perché le cose migliori si sa succedono inaspettatamente, come le peggiori del resto.
Il primo bacio forse si chiamava Pino, un ragazzo ricciolo e moro, di qualche anno più grande, ma di quel primo bacio non c’è un ricordo netto, preciso, un’emozione intensa, forse era stato tra le cabine, poi Gabriella aveva dato una festa a casa sua e lì altro bacio lungo il corridoio, sulla cassapanca scura, ma quando lo stabilimento chiuse, di quel gruppetto di ragazze e ragazzi che negli ultimi giorni di settembre aveva fatto una combriccola, una comitiva, più niente.
Ma cosa era successo in quei giorni non più caldi, gli ultimi di vacanza, quando le scuole cominciavano ad ottobre?
C’era un certo Tonino, nel gruppo dei grandi, anni ventisette, il bono della spiaggia.
“Passa Tonino! C’è Tonino!” avvisava Gabriella che già mirava in alto.
Questo ragazzo, un uomo agli occhi di Alessandra, era alto e magro, scuro di capelli, dagli occhi verdi e il sorriso smagliante, ovviamente faceva battere molti cuori ed era al centro delle attenzioni grazie anche al suo modo sicuro da romano de Roma, che allora non la infastidiva.
In uno di quei molli pomeriggi, Alessandra era distesa a prendere l’ombra, sulla sabbia umida, perché il sole era già dietro l’orizzonte, in fondo al mare, distesa con il mento sulle mani, chiacchierava con gli altri, mentre Gabriella era in piedi di fronte a lei, appoggiata ad una cabina.
Tonino si avvicina, il corpo magro e scuro, gli slip anni ’60, si avvicina ad Alessandra senza lasciar trapelare alcuna intenzione, si abbassa sulla sabbia accanto a lei, le infila la lingua in bocca, una spazzolata, con gli occhi verdi aperti, si alza e se ne va, prosegue indifferente, come fosse normale baciare una di tredici anni così.
Il tutto si era svolto in pochi secondi, Alessandra, che ancora si deve riprendere da quel bacio, era attonita e non si muoveva, al contrario di Gabriella che aveva cominciato a fare dei saltini e indicando la sua amica gridava “ Tonino ha baciato Alessandra! Tonino ha baciato Alessandra! “.
Di quel bacio Alessandra conserva la sensazione fisica, lo stupore e il ricordo di quell’uomo bellissimo, che forse oggi sarebbe un tronista o un interprete di reality televisivi

La porchetta


                                                             La porchetta                               

Quando avevo diciassette anni cominciammo ad andare a Bagni di Tivoli dalla sarta Gianna, che nei decenni è diventata un’amica e ancora mi telefona per sapere come sto. Ce l’aveva consigliata una domestica  di quelle parti, quando mamma aveva notato i suoi completi di buon taglio, se pur di stoffa non eccezionale. 
Mamma si faceva fare dei vestiti nuovi due volte l’anno, ritagliava dei modelli dalle riviste, li vedeva in giro o alla televisione, faceva degli schizzi, poi conservava tutto in una cartellina.
Aveva modelli pronti per tutti, adatti al fisico e all’età; spesso andavamo dalla sarta in gruppo, con zia e una sua amica, Enrica, collega di lavoro alla CISL.                 Da quando ero partita per Siena le accompagnavo di rado, il gruppo si era assottigliato, chi non c’era più, chi era invecchiata, mamma,  imperterrita, continuava  ad andare a Bagni, dalla Signora Gianna, ma più spesso veniva lei a Roma, accompagnata dal marito Pasquale, in nome della vecchia amicizia. Quando i vestiti erano pronti Pasquale lasciava dal portiere, la sera,  prima che la guardiola chiudesse, dei  pacchi fatti con fogli di giornale e chiusi dagli spilli.
All’inizio dell’estate mamma mi chiese di portarla a Bagni, sapevo che quello era l’ultimo viaggio, era malata, il corpo si era prosciugato ed oltre ai vestiti nuovi per l’estate, si fece restringere alcuni di quelli invernali.
Per andare a Bagni attraversavamo la zona Talenti, poi la borgata  San Basilio e finalmente eravamo sulla Tiburtina, una consolare orribile, piena di piccole fabbriche e traffico, con i camion e l’uscita degli operai.
Mamma già da due anni aveva bisogno dell’ossigeno, il tubicino nel naso e lo stroller, la bombola portatile che teneva  tra le gambe quando era in macchina, inoltre c’era la lunga lista di medicine.
Sulla strada del ritorno aspettavo la richiesta di rito:” Voglio la porchetta “, disse con tono assertivo.
“ Ma ti farà male “, replicai. “ Cosa vuoi che mi faccia, una volta l’anno! “, rispose irata e con i pugni chiusi.
“ Va bene “, risposi e dopo duecento metri accostai la macchina, era caldo e la Tiburtina era una lingua infuocata, il furgone della porchetta era dall’altro lato della strada.
“ Dì alla signora se si ricorda di me, così dalla macchina la saluto “, mi disse.
“ Va bene “, risposi.
Di fronte al furgone c’erano dei tavolini bianchi di plastica e dei piccoli ombrelloni rossi con la scritta CocaCola, gli avventori si sedevano anche sotto quel sole e mitigavano la loro stanchezza con dei grossi panini , c’era esposta la lista dei prezzi, con le “coppie”, strisce di carne secca al peperoncino, vecchia specialità, ormai quasi introvabile, che ricordava il dopoguerra , gli anni cinquanta, mi avvicinai e fui investita da un effluvio di salsiccia e wurstel alla piastra.
 Prima di me c’era una donna, la guardai, mi colpì, era una bambolina cinquantenne, volgare e malinconica, eppure con una sua bellezza.
Era piccola, morbida, con la pelle bianca, i capelli biondissimi e gonfi incorniciavano dei lineamenti delicati, il viso era liscio, ma coperto di fondotinta, gli occhi grandi e verdissimi avevano un trucco nero, pesante, era tutta vestita in un bel tono di verde salvia, la gonna era di stoffa cangiante, lunga, a balze, increspata di lato, al collo aveva una grossa collana, un torchon, tanti fili attorcigliati di chioccioline verdi, tutto tono su tono.
“ Che bella collana “, le dissi. “ Grazieee “, rispose lei accennando un sorriso triste e girando gli occhi brillanti verso di me, quasi riconoscenti.
“ Come lo voi er panino? “, chiese l’uomo dietro il banco. “ Cor provolone “, rispose lei.
“ I carciofini te piacciono? “. “ Me piace tutto, ma sbrigate, che devo annà a lavorà, damme pure una bottija d’acqua “, concluse, pagò e andò via.
“Due etti di porchetta “ dissi, pagai e tornai alla macchina pensando che mamma si sarebbe gratificata così, con quel cibo sapido e brutale.
“ La signora c’era, ti ha riconosciuta? “ mi chiese. “ No, c’era un uomo” tagliai corto.
Tornavamo a casa attraverso la borgata e la periferia e pensavo a quella donna,forse aveva un lavoro “normale”, ma era troppo triste, certamente aveva preso servizio sulla Tiburtina, sul ciglio della strada, all’ora di pranzo di fine giugno, su quella striscia grigia che restituiva l’inferno.
Non era ne un’albanese minorenne, ne una nigeriana grande e scura, ma forse quella battona italica, non più giovane ma ancora bella, una lupa, era più rassicurante, familiare, per un camionista che cercava solo consolazione da un viaggio stremante e la cercava così senza violenza, senza disprezzo.


    



Largo Arenula 34


Largo Arenula 34

I ricordi della mia infanzia e giovinezza sono strettamente legati alle case che ho abitato, la prima è un ricordo condiviso con Marina mia cugina e Gianni mio cugino che non c’è più, in quanto era la casa di nonna Bianca Finzi, sono felice di condividere questo ricordo e che Marina abbia fatto vedere ai figli la casa dove lei stessa e Gianni hanno trascorso parte del tempo della loro infanzia.
 Per chi non conosce Roma nei dettagli Largo Arenula è una piazza centralissima a forma di anfiteatro; da lì parte Via delle Botteghe Oscure, sede storica del PC I, forse per questo negli anni seguenti l’appartamento dove avevo abitato divenne la sede del MSI. Sulla facciata, di quel palazzo al centro storico, misero in seguito una fiamma tricolore gigante, fatta di tubi al neon, che io guardavo in lontananza. Quando era accesa  la trovavo bella e suggestiva.  In anni recenti il piano di sopra , con grandi finestre ed un balcone ornato da bandiere che si muovevano al vento, ha ospitato l’UDEUR di Mastella.  In fondo c’è piazza Venezia, a destra Via Arenula porta  al Tevere, all’isola Tiberina e a Trastevere, a sinistra c’è piazza Argentina, con gli scavi fatti da Mussolini e il teatro omonimo. Prima degli scavi, mi ha raccontato il marito della dott.ssa Bencini, amica di mamma, c’erano dei palazzi vecchi e altissimi, che non facevano arrivare la luce alla strada, per cui i negozi non ricevevano la luce del sole, da cui il nome della strada. Quando sono nata, il 9 febbraio 1951, il teatro ancora non era aperto, forse era stato chiuso durante la guerra. Passavo spesso davanti a quell’edificio e mi chiedevo cosa celassero quelle porte sempre chiuse, a sei anni sono andata via, ma il teatro non era ancora aperto, ha aperto all’inizio degli anni 70. 
 Sono nata nella clinica “ Villa Margherita “ in Via di Villa Massimo, dopo taglio cesareo, broncopolmonite di mamma, tutti che piangevano e salasso di soldi del conto da pagare, certo l’idea della clinica privata deve essere stata di papà. Quando sono giunta a casa, la portiera Terza mi ha guardato avvolta nella copertina e ha detto “che brutta, questa non campa! “, deve avermi portato fortuna. Terza era vecchia, grassa, vestita di nero, ma soprattutto aveva le unghie nere, quando la sera i miei uscivano, veniva lei a fare da baby-sitter, ma certo il termine allora non esisteva, né Terza aveva l’aspetto della studentessa, inoltre quelle unghie erano insopportabili e non gradivo la sua presenza, così protestavo quando mi lasciavano con lei.
 Nonna Bianca era ancora viva, aveva 80 anni più di me, ricordo una vecchietta piccola e fragile d’aspetto, sempre vestita di nero, appoggiata ad  un bastone col manico d’argento, vedevo la sua figura arrivare lungo il corridoio, ma non avevamo molti contatti, vuoi per l’età, vuoi perché i rapporti tra suocera e nuora conviventi aderivano agli stereotipi, ma anche perché mio padre non mediava, anzi acuiva i problemi. Nonna infilava le perle come mestiere, un mestiere ormai sparito, aveva infilato le perle a corte, tranne poi essere mandata via dopo le leggi razziali. Mamma, non senza ironia, diceva che  nonna aveva infilato le perle della regina Margherita, ricordando le foto della regina della pizza che la rappresentavano con lunghi fili di perle al collo. Di quel periodo a corte nonna aveva un bel ricordo e simpatie monarchiche, che le leggi razziali non avevano cancellato, anzi si ricordava sempre con piacere di quando la regina, Elena di Montenegro  le offriva il tè. Dopo che era morta, le persone continuavano a suonare alla nostra porta cercando la signora che infilava le perle. Ogni tanto Gianni veniva a trovarci e mi fregava qualche giocattolo da regalare ai fratelli più piccoli delle sue fidanzate; qualche volta veniva Marina a trovare nonna e lei mi ha detto che mi portava ai giardinetti: non lo ricordo, ma una volta portò un pollo per pranzo, lei e nonna si misero a mangiare in camera di nonna, su di un tavolinetto basso, Marina scartò il pollo che emanò un invitante profumino e mi rammaricai di non far parte della compagnia. Marina è la memoria storica della mia famiglia, ho bisogno di riempire tanti vuoti, prima o poi ci riuscirò. E’ proprio grazie a lei che ho saputo di zio Carlo, fratello di nonna, il cui nome avevo sentito, ma non sapevo che fosse stato deportato con la sua famiglia e che nonna, quando sentiva il campanello diceva a Marina “ vai ad aprire, forse qualcuno ci porta notizie di zio Carlo”. Dopo tanti anni e grazie alla memoria di Marina, abbiamo messo 5 pietre d’inciampo per la famiglia di Carlo Finzi, nel gennaio scorso 2012; quel giorno ho rincontrato persone mie parenti che non vedevo da trenta anni, altri che non conoscevo, la signora Viterbi, ottantenne, che era stata innamorata di zio Giulio, mi sono emozionata, anche se Marina purtroppo  non ha potuto esserci, ma forse nonna Bianca ha avuto in po’ di sollievo dall’immenso dolore delle deportazioni.
Lina era la prima domestica-tata, l’ho chiamata mamma, causando alla mia mamma qualche lacrima, così mi ha raccontato. Presto  Lina trovò un portierato nel palazzo accanto e passavo i pomeriggi con lei nella guardiola. Cuciva spesso, aggiustava i vestiti, faceva gli orli; c’era una piccola scatola di metallo di sigarette inglesi residuo della guerra, piena di spilli, appoggiata su di uno sgabellino. Un giorno quella scatoletta era aperta, il bordo era molto tagliente, un ragazzo che vedevo spesso nella guardiola, mi diede un spinta, caddi in ginocchio causandomi un taglio netto sulla gamba che fu avvolta in un asciugamano di fiandra con le frange. Il ragazzo mi portò in braccio a casa, assieme a Lina, l’asciugamano era pieno di sangue: 7 punti ed una cicatrice che non si abbronza l’estate. Dopo il pronto soccorso mamma  fece vedere la ferita a un collega chirurgo;  la ferita era stata ricucita bene, ma se la cicatrice doveva essere visibile il meno possibile, dato che sarebbero state gambe di una ragazza, mamma non mi avrebbe dovuto far camminare per qualche mese. Avevo quattro anni,  la fatica di mamma non fu indifferente e io sono stata immortalata in braccio a lei, con la gamba fasciata, sulla spiaggia di Scauri. Fu li che io e Cecilia ci siamo conosciute, ma la nostra è diventata una amicizia da quando ci siamo trasferite in Toscana, circa 20 anni fa. Strana coincidenza.
Era un grande appartamento al primo piano, grande e cupo, con le finestre più piccole di quelle degli altri piani, arredato con i mobili di nonna, due comò e i comodini sono arrivati fino a me.C’era un lungo corridoio che dalla porta di casa portava ad un grande atrio con due colonne rivestite di carta da parati verde;  giravo tra le colonne col triciclo mentre la domestica si lamentava perchè lasciavo le righe sul pavimento. Lungo il corridoio c’era una finestra che una volta infransi ed un vetro mi  si infilzò sul sopracciglio, conservo ancora un vago ricordo dell’incidente e una piccola cicatrice. La finestra si apriva all’interno del palazzo: era una piccola corte, ma rialzata, per me era un luogo affascinante, proprio per quel suo essere racchiuso ed escluso dal caos del centro e, già allora,  la zona era molto movimentata. In fondo al corridoio c’erano due gradini e un cancelletto in ferro battuto che nonna volle sulla sua tomba.
Dopo Lina ci furono altre domestiche : ci fu una selezione e una sera trovai in casa una ragazza bellissima, alta, bionda, con i capelli ondulati fino alle spalle, fasciata in un vestito blu, che ne esaltava il corpo da diva anni 50. Era estate e dopo cena mi portò a spasso, dietro avevamo una coda di giovanotti, militari in divisa, anche un marinaio e la cosa mi inorgogliva. Papà prese informazioni; era veneta, aveva diciannove anni, ma era scappata di casa, così fu rimandata a Venezia e sostituita da Peppa, una abruzzese con i baffi che, quando mi accompagnava all’asilo dalle suore di Nevère, aveva imparato a dire “ bonjour ma mère “. Andavamo spesso ai giardinetti di piazza Venezia, dove bevevo da una fontanella la cui acqua usciva da una testa a forma di lupa. La lupa è anche il simbolo di Siena, la lupa etrusca, più aggressiva con le fauci aperte, da vera divinità silvana, ma la lupa del Campidoglio, quella era un vero piacere andare a vederla, è un ricordo privilegiato per chi ha abitato in centro, anche se per pochi anni. Da piazza Venezia passavamo sotto l’Aracoeli e il Campidoglio e, a sinistra, sotto la rupe Tarpea c’era una lupa in gabbia,   un cane-lupo, che ossessivamente faceva avanti e in dietro nei pochi metri a disposizione, da cui il detto di quegli anni “ sembri la lupa del Campidoglio “ riferito a chi non trovava posa; poi per fortuna la lupa non fu  più sostituita, anche se quella gabbia vuota mi faceva melanconia. In quella casa ho la prima foto fatta ad un anno dal fotografo ed ho visto il primo albero di natale, contro cui ho tirato un cuscino, come mamma mi raccontava. Mamma era golosa di fichi secchi, quelli con la mandorla, ovviamente ero io che li finivo, poi buttavo i picciuoli in un angolo , dove passava un filo della luce, intorno al filo si formò una strana cosa appiccicosa, mamma credeva fossero formiche, il vecchio appartamento era visitato anche dagli scarafaggi, così papà, che indossava un impermeabile leggerissimo, come si usava allora, si chinò accese l’accendino, scrutò ma non capì cosa fosse, comunque non erano formiche e mamma si rassicurò. Con Peppa, l’abruzzese, andavamo a fare la spesa a Campo dei Fiori, di cui sentivo tutto il fascino e la bellezza, il mercato era avvolto nel sole che illuminava i palazzi antichi, la statua cupa di Giordano Bruno e esaltava i colori degli ortaggi e della frutta.
 Il pomeriggio mi mettevo in finestra ed aspettavo passasse il cambio della guardia del milite ignoto. Un gruppo cospicuo di soldati marciava verso piazza Venezia, più di tutti amavo le divise azzurre dell’aeronautica, infatti gridavo “ mamma passa l’aronatica! “, come mamma mi ricordava negli anni. Quando quella compagnia era passata, era scesa anche la sera e la piazza si era tinta di un colore violetto. Quando ho letto “ Eveline “  di Joyce: “ the evening invading the avenue “ quell’anfiteatro di palazzi, le rovine e “Torre Argentina” mi sono apparsi nella mente alla luce del crepuscolo.
Il ricordo più vivo è stato “ La nevicata del 56 “, come la canzone di Mia Martini. Nevicò nella notte tra l’8 e il 9 febbraio, giorno del mio compleanno. La mattina presto vengo svegliata da i miei. “ C’è una sorpresa “, disse mamma “ papà ti ha ordinato la neve “.
Mi alzai, papà mi portò in braccio alla finestra, guardai attraverso i vetri freddi, tutto era bianco e immobile, Alemanno per fortuna ancora non c’era.
Ho amato quella casa, la vita di quegli anni, la scuola dalle suore con la divisa blu, ancora troppo piccola per sentire l’ansia che poi, negli anni, avrei provato.