Quando avevo diciassette anni
cominciammo ad andare a Bagni di Tivoli dalla sarta Gianna, che nei decenni è
diventata un’amica e ancora mi telefona per sapere come sto. Ce l’aveva
consigliata una domestica di quelle
parti, quando mamma aveva notato i suoi completi di buon taglio, se pur di
stoffa non eccezionale.
Mamma si faceva fare dei vestiti
nuovi due volte l’anno, ritagliava dei modelli dalle riviste, li vedeva in giro
o alla televisione, faceva degli schizzi, poi conservava tutto in una
cartellina.
Aveva modelli pronti per tutti,
adatti al fisico e all’età; spesso andavamo dalla sarta in gruppo, con zia e
una sua amica, Enrica, collega di lavoro alla CISL. Da quando ero partita per Siena le
accompagnavo di rado, il gruppo si era assottigliato, chi non c’era più, chi
era invecchiata, mamma, imperterrita,
continuava ad andare a Bagni, dalla
Signora Gianna, ma più spesso veniva lei a Roma, accompagnata dal marito
Pasquale, in nome della vecchia amicizia. Quando i vestiti erano pronti
Pasquale lasciava dal portiere, la sera,
prima che la guardiola chiudesse, dei pacchi fatti con fogli di giornale e chiusi
dagli spilli.
All’inizio dell’estate mamma mi chiese
di portarla a Bagni, sapevo che quello era l’ultimo viaggio, era malata, il
corpo si era prosciugato ed oltre ai vestiti nuovi per l’estate, si fece
restringere alcuni di quelli invernali.
Per andare a Bagni attraversavamo la
zona Talenti, poi la borgata San Basilio
e finalmente eravamo sulla Tiburtina, una consolare orribile, piena di piccole
fabbriche e traffico, con i camion e l’uscita degli operai.
Mamma già da due anni aveva bisogno dell’ossigeno,
il tubicino nel naso e lo stroller, la bombola portatile che teneva tra le gambe quando era in macchina, inoltre
c’era la lunga lista di medicine.
Sulla strada del ritorno aspettavo la
richiesta di rito:” Voglio la porchetta “, disse con tono assertivo.
“ Ma ti farà male “, replicai. “ Cosa
vuoi che mi faccia, una volta l’anno! “, rispose irata e con i pugni chiusi.
“ Va bene “, risposi e dopo duecento
metri accostai la macchina, era caldo e la Tiburtina era una lingua infuocata,
il furgone della porchetta era dall’altro lato della strada.
“ Dì alla signora se si ricorda di me,
così dalla macchina la saluto “, mi disse.
“ Va bene “, risposi.
Di fronte al furgone c’erano dei
tavolini bianchi di plastica e dei piccoli ombrelloni rossi con la scritta
CocaCola, gli avventori si sedevano anche sotto quel sole e mitigavano la loro
stanchezza con dei grossi panini , c’era esposta la lista dei prezzi, con le
“coppie”, strisce di carne secca al peperoncino, vecchia specialità, ormai
quasi introvabile, che ricordava il dopoguerra , gli anni cinquanta, mi
avvicinai e fui investita da un effluvio di salsiccia e wurstel alla piastra.
Prima di me c’era una donna, la guardai, mi
colpì, era una bambolina cinquantenne, volgare e malinconica, eppure con una sua
bellezza.
Era piccola, morbida, con la pelle
bianca, i capelli biondissimi e gonfi incorniciavano dei lineamenti delicati,
il viso era liscio, ma coperto di fondotinta, gli occhi grandi e verdissimi
avevano un trucco nero, pesante, era tutta vestita in un bel tono di verde
salvia, la gonna era di stoffa cangiante, lunga, a balze, increspata di lato,
al collo aveva una grossa collana, un torchon, tanti fili attorcigliati di
chioccioline verdi, tutto tono su tono.
“ Che bella collana “, le dissi. “
Grazieee “, rispose lei accennando un sorriso triste e girando gli occhi
brillanti verso di me, quasi riconoscenti.
“ Come lo voi er panino? “, chiese l’uomo
dietro il banco. “ Cor provolone “, rispose lei.
“ I carciofini te piacciono? “. “ Me
piace tutto, ma sbrigate, che devo annà a lavorà, damme pure una bottija
d’acqua “, concluse, pagò e andò via.
“Due etti di porchetta “ dissi, pagai e tornai
alla macchina pensando che mamma si sarebbe gratificata così, con quel cibo
sapido e brutale.
“ La signora c’era, ti ha riconosciuta?
“ mi chiese. “ No, c’era un uomo” tagliai corto.
Tornavamo a casa attraverso la borgata e
la periferia e pensavo a quella donna,forse aveva un lavoro “normale”, ma era
troppo triste, certamente aveva preso servizio sulla Tiburtina, sul ciglio
della strada, all’ora di pranzo di fine giugno, su quella striscia grigia che
restituiva l’inferno.
Non era ne un’albanese minorenne, ne una
nigeriana grande e scura, ma forse quella battona italica, non più giovane ma
ancora bella, una lupa, era più rassicurante, familiare, per un camionista che
cercava solo consolazione da un viaggio stremante e la cercava così senza
violenza, senza disprezzo.
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