martedì 8 maggio 2012

La porchetta


                                                             La porchetta                               

Quando avevo diciassette anni cominciammo ad andare a Bagni di Tivoli dalla sarta Gianna, che nei decenni è diventata un’amica e ancora mi telefona per sapere come sto. Ce l’aveva consigliata una domestica  di quelle parti, quando mamma aveva notato i suoi completi di buon taglio, se pur di stoffa non eccezionale. 
Mamma si faceva fare dei vestiti nuovi due volte l’anno, ritagliava dei modelli dalle riviste, li vedeva in giro o alla televisione, faceva degli schizzi, poi conservava tutto in una cartellina.
Aveva modelli pronti per tutti, adatti al fisico e all’età; spesso andavamo dalla sarta in gruppo, con zia e una sua amica, Enrica, collega di lavoro alla CISL.                 Da quando ero partita per Siena le accompagnavo di rado, il gruppo si era assottigliato, chi non c’era più, chi era invecchiata, mamma,  imperterrita, continuava  ad andare a Bagni, dalla Signora Gianna, ma più spesso veniva lei a Roma, accompagnata dal marito Pasquale, in nome della vecchia amicizia. Quando i vestiti erano pronti Pasquale lasciava dal portiere, la sera,  prima che la guardiola chiudesse, dei  pacchi fatti con fogli di giornale e chiusi dagli spilli.
All’inizio dell’estate mamma mi chiese di portarla a Bagni, sapevo che quello era l’ultimo viaggio, era malata, il corpo si era prosciugato ed oltre ai vestiti nuovi per l’estate, si fece restringere alcuni di quelli invernali.
Per andare a Bagni attraversavamo la zona Talenti, poi la borgata  San Basilio e finalmente eravamo sulla Tiburtina, una consolare orribile, piena di piccole fabbriche e traffico, con i camion e l’uscita degli operai.
Mamma già da due anni aveva bisogno dell’ossigeno, il tubicino nel naso e lo stroller, la bombola portatile che teneva  tra le gambe quando era in macchina, inoltre c’era la lunga lista di medicine.
Sulla strada del ritorno aspettavo la richiesta di rito:” Voglio la porchetta “, disse con tono assertivo.
“ Ma ti farà male “, replicai. “ Cosa vuoi che mi faccia, una volta l’anno! “, rispose irata e con i pugni chiusi.
“ Va bene “, risposi e dopo duecento metri accostai la macchina, era caldo e la Tiburtina era una lingua infuocata, il furgone della porchetta era dall’altro lato della strada.
“ Dì alla signora se si ricorda di me, così dalla macchina la saluto “, mi disse.
“ Va bene “, risposi.
Di fronte al furgone c’erano dei tavolini bianchi di plastica e dei piccoli ombrelloni rossi con la scritta CocaCola, gli avventori si sedevano anche sotto quel sole e mitigavano la loro stanchezza con dei grossi panini , c’era esposta la lista dei prezzi, con le “coppie”, strisce di carne secca al peperoncino, vecchia specialità, ormai quasi introvabile, che ricordava il dopoguerra , gli anni cinquanta, mi avvicinai e fui investita da un effluvio di salsiccia e wurstel alla piastra.
 Prima di me c’era una donna, la guardai, mi colpì, era una bambolina cinquantenne, volgare e malinconica, eppure con una sua bellezza.
Era piccola, morbida, con la pelle bianca, i capelli biondissimi e gonfi incorniciavano dei lineamenti delicati, il viso era liscio, ma coperto di fondotinta, gli occhi grandi e verdissimi avevano un trucco nero, pesante, era tutta vestita in un bel tono di verde salvia, la gonna era di stoffa cangiante, lunga, a balze, increspata di lato, al collo aveva una grossa collana, un torchon, tanti fili attorcigliati di chioccioline verdi, tutto tono su tono.
“ Che bella collana “, le dissi. “ Grazieee “, rispose lei accennando un sorriso triste e girando gli occhi brillanti verso di me, quasi riconoscenti.
“ Come lo voi er panino? “, chiese l’uomo dietro il banco. “ Cor provolone “, rispose lei.
“ I carciofini te piacciono? “. “ Me piace tutto, ma sbrigate, che devo annà a lavorà, damme pure una bottija d’acqua “, concluse, pagò e andò via.
“Due etti di porchetta “ dissi, pagai e tornai alla macchina pensando che mamma si sarebbe gratificata così, con quel cibo sapido e brutale.
“ La signora c’era, ti ha riconosciuta? “ mi chiese. “ No, c’era un uomo” tagliai corto.
Tornavamo a casa attraverso la borgata e la periferia e pensavo a quella donna,forse aveva un lavoro “normale”, ma era troppo triste, certamente aveva preso servizio sulla Tiburtina, sul ciglio della strada, all’ora di pranzo di fine giugno, su quella striscia grigia che restituiva l’inferno.
Non era ne un’albanese minorenne, ne una nigeriana grande e scura, ma forse quella battona italica, non più giovane ma ancora bella, una lupa, era più rassicurante, familiare, per un camionista che cercava solo consolazione da un viaggio stremante e la cercava così senza violenza, senza disprezzo.


    



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