martedì 8 maggio 2012

Largo Arenula 34


Largo Arenula 34

I ricordi della mia infanzia e giovinezza sono strettamente legati alle case che ho abitato, la prima è un ricordo condiviso con Marina mia cugina e Gianni mio cugino che non c’è più, in quanto era la casa di nonna Bianca Finzi, sono felice di condividere questo ricordo e che Marina abbia fatto vedere ai figli la casa dove lei stessa e Gianni hanno trascorso parte del tempo della loro infanzia.
 Per chi non conosce Roma nei dettagli Largo Arenula è una piazza centralissima a forma di anfiteatro; da lì parte Via delle Botteghe Oscure, sede storica del PC I, forse per questo negli anni seguenti l’appartamento dove avevo abitato divenne la sede del MSI. Sulla facciata, di quel palazzo al centro storico, misero in seguito una fiamma tricolore gigante, fatta di tubi al neon, che io guardavo in lontananza. Quando era accesa  la trovavo bella e suggestiva.  In anni recenti il piano di sopra , con grandi finestre ed un balcone ornato da bandiere che si muovevano al vento, ha ospitato l’UDEUR di Mastella.  In fondo c’è piazza Venezia, a destra Via Arenula porta  al Tevere, all’isola Tiberina e a Trastevere, a sinistra c’è piazza Argentina, con gli scavi fatti da Mussolini e il teatro omonimo. Prima degli scavi, mi ha raccontato il marito della dott.ssa Bencini, amica di mamma, c’erano dei palazzi vecchi e altissimi, che non facevano arrivare la luce alla strada, per cui i negozi non ricevevano la luce del sole, da cui il nome della strada. Quando sono nata, il 9 febbraio 1951, il teatro ancora non era aperto, forse era stato chiuso durante la guerra. Passavo spesso davanti a quell’edificio e mi chiedevo cosa celassero quelle porte sempre chiuse, a sei anni sono andata via, ma il teatro non era ancora aperto, ha aperto all’inizio degli anni 70. 
 Sono nata nella clinica “ Villa Margherita “ in Via di Villa Massimo, dopo taglio cesareo, broncopolmonite di mamma, tutti che piangevano e salasso di soldi del conto da pagare, certo l’idea della clinica privata deve essere stata di papà. Quando sono giunta a casa, la portiera Terza mi ha guardato avvolta nella copertina e ha detto “che brutta, questa non campa! “, deve avermi portato fortuna. Terza era vecchia, grassa, vestita di nero, ma soprattutto aveva le unghie nere, quando la sera i miei uscivano, veniva lei a fare da baby-sitter, ma certo il termine allora non esisteva, né Terza aveva l’aspetto della studentessa, inoltre quelle unghie erano insopportabili e non gradivo la sua presenza, così protestavo quando mi lasciavano con lei.
 Nonna Bianca era ancora viva, aveva 80 anni più di me, ricordo una vecchietta piccola e fragile d’aspetto, sempre vestita di nero, appoggiata ad  un bastone col manico d’argento, vedevo la sua figura arrivare lungo il corridoio, ma non avevamo molti contatti, vuoi per l’età, vuoi perché i rapporti tra suocera e nuora conviventi aderivano agli stereotipi, ma anche perché mio padre non mediava, anzi acuiva i problemi. Nonna infilava le perle come mestiere, un mestiere ormai sparito, aveva infilato le perle a corte, tranne poi essere mandata via dopo le leggi razziali. Mamma, non senza ironia, diceva che  nonna aveva infilato le perle della regina Margherita, ricordando le foto della regina della pizza che la rappresentavano con lunghi fili di perle al collo. Di quel periodo a corte nonna aveva un bel ricordo e simpatie monarchiche, che le leggi razziali non avevano cancellato, anzi si ricordava sempre con piacere di quando la regina, Elena di Montenegro  le offriva il tè. Dopo che era morta, le persone continuavano a suonare alla nostra porta cercando la signora che infilava le perle. Ogni tanto Gianni veniva a trovarci e mi fregava qualche giocattolo da regalare ai fratelli più piccoli delle sue fidanzate; qualche volta veniva Marina a trovare nonna e lei mi ha detto che mi portava ai giardinetti: non lo ricordo, ma una volta portò un pollo per pranzo, lei e nonna si misero a mangiare in camera di nonna, su di un tavolinetto basso, Marina scartò il pollo che emanò un invitante profumino e mi rammaricai di non far parte della compagnia. Marina è la memoria storica della mia famiglia, ho bisogno di riempire tanti vuoti, prima o poi ci riuscirò. E’ proprio grazie a lei che ho saputo di zio Carlo, fratello di nonna, il cui nome avevo sentito, ma non sapevo che fosse stato deportato con la sua famiglia e che nonna, quando sentiva il campanello diceva a Marina “ vai ad aprire, forse qualcuno ci porta notizie di zio Carlo”. Dopo tanti anni e grazie alla memoria di Marina, abbiamo messo 5 pietre d’inciampo per la famiglia di Carlo Finzi, nel gennaio scorso 2012; quel giorno ho rincontrato persone mie parenti che non vedevo da trenta anni, altri che non conoscevo, la signora Viterbi, ottantenne, che era stata innamorata di zio Giulio, mi sono emozionata, anche se Marina purtroppo  non ha potuto esserci, ma forse nonna Bianca ha avuto in po’ di sollievo dall’immenso dolore delle deportazioni.
Lina era la prima domestica-tata, l’ho chiamata mamma, causando alla mia mamma qualche lacrima, così mi ha raccontato. Presto  Lina trovò un portierato nel palazzo accanto e passavo i pomeriggi con lei nella guardiola. Cuciva spesso, aggiustava i vestiti, faceva gli orli; c’era una piccola scatola di metallo di sigarette inglesi residuo della guerra, piena di spilli, appoggiata su di uno sgabellino. Un giorno quella scatoletta era aperta, il bordo era molto tagliente, un ragazzo che vedevo spesso nella guardiola, mi diede un spinta, caddi in ginocchio causandomi un taglio netto sulla gamba che fu avvolta in un asciugamano di fiandra con le frange. Il ragazzo mi portò in braccio a casa, assieme a Lina, l’asciugamano era pieno di sangue: 7 punti ed una cicatrice che non si abbronza l’estate. Dopo il pronto soccorso mamma  fece vedere la ferita a un collega chirurgo;  la ferita era stata ricucita bene, ma se la cicatrice doveva essere visibile il meno possibile, dato che sarebbero state gambe di una ragazza, mamma non mi avrebbe dovuto far camminare per qualche mese. Avevo quattro anni,  la fatica di mamma non fu indifferente e io sono stata immortalata in braccio a lei, con la gamba fasciata, sulla spiaggia di Scauri. Fu li che io e Cecilia ci siamo conosciute, ma la nostra è diventata una amicizia da quando ci siamo trasferite in Toscana, circa 20 anni fa. Strana coincidenza.
Era un grande appartamento al primo piano, grande e cupo, con le finestre più piccole di quelle degli altri piani, arredato con i mobili di nonna, due comò e i comodini sono arrivati fino a me.C’era un lungo corridoio che dalla porta di casa portava ad un grande atrio con due colonne rivestite di carta da parati verde;  giravo tra le colonne col triciclo mentre la domestica si lamentava perchè lasciavo le righe sul pavimento. Lungo il corridoio c’era una finestra che una volta infransi ed un vetro mi  si infilzò sul sopracciglio, conservo ancora un vago ricordo dell’incidente e una piccola cicatrice. La finestra si apriva all’interno del palazzo: era una piccola corte, ma rialzata, per me era un luogo affascinante, proprio per quel suo essere racchiuso ed escluso dal caos del centro e, già allora,  la zona era molto movimentata. In fondo al corridoio c’erano due gradini e un cancelletto in ferro battuto che nonna volle sulla sua tomba.
Dopo Lina ci furono altre domestiche : ci fu una selezione e una sera trovai in casa una ragazza bellissima, alta, bionda, con i capelli ondulati fino alle spalle, fasciata in un vestito blu, che ne esaltava il corpo da diva anni 50. Era estate e dopo cena mi portò a spasso, dietro avevamo una coda di giovanotti, militari in divisa, anche un marinaio e la cosa mi inorgogliva. Papà prese informazioni; era veneta, aveva diciannove anni, ma era scappata di casa, così fu rimandata a Venezia e sostituita da Peppa, una abruzzese con i baffi che, quando mi accompagnava all’asilo dalle suore di Nevère, aveva imparato a dire “ bonjour ma mère “. Andavamo spesso ai giardinetti di piazza Venezia, dove bevevo da una fontanella la cui acqua usciva da una testa a forma di lupa. La lupa è anche il simbolo di Siena, la lupa etrusca, più aggressiva con le fauci aperte, da vera divinità silvana, ma la lupa del Campidoglio, quella era un vero piacere andare a vederla, è un ricordo privilegiato per chi ha abitato in centro, anche se per pochi anni. Da piazza Venezia passavamo sotto l’Aracoeli e il Campidoglio e, a sinistra, sotto la rupe Tarpea c’era una lupa in gabbia,   un cane-lupo, che ossessivamente faceva avanti e in dietro nei pochi metri a disposizione, da cui il detto di quegli anni “ sembri la lupa del Campidoglio “ riferito a chi non trovava posa; poi per fortuna la lupa non fu  più sostituita, anche se quella gabbia vuota mi faceva melanconia. In quella casa ho la prima foto fatta ad un anno dal fotografo ed ho visto il primo albero di natale, contro cui ho tirato un cuscino, come mamma mi raccontava. Mamma era golosa di fichi secchi, quelli con la mandorla, ovviamente ero io che li finivo, poi buttavo i picciuoli in un angolo , dove passava un filo della luce, intorno al filo si formò una strana cosa appiccicosa, mamma credeva fossero formiche, il vecchio appartamento era visitato anche dagli scarafaggi, così papà, che indossava un impermeabile leggerissimo, come si usava allora, si chinò accese l’accendino, scrutò ma non capì cosa fosse, comunque non erano formiche e mamma si rassicurò. Con Peppa, l’abruzzese, andavamo a fare la spesa a Campo dei Fiori, di cui sentivo tutto il fascino e la bellezza, il mercato era avvolto nel sole che illuminava i palazzi antichi, la statua cupa di Giordano Bruno e esaltava i colori degli ortaggi e della frutta.
 Il pomeriggio mi mettevo in finestra ed aspettavo passasse il cambio della guardia del milite ignoto. Un gruppo cospicuo di soldati marciava verso piazza Venezia, più di tutti amavo le divise azzurre dell’aeronautica, infatti gridavo “ mamma passa l’aronatica! “, come mamma mi ricordava negli anni. Quando quella compagnia era passata, era scesa anche la sera e la piazza si era tinta di un colore violetto. Quando ho letto “ Eveline “  di Joyce: “ the evening invading the avenue “ quell’anfiteatro di palazzi, le rovine e “Torre Argentina” mi sono apparsi nella mente alla luce del crepuscolo.
Il ricordo più vivo è stato “ La nevicata del 56 “, come la canzone di Mia Martini. Nevicò nella notte tra l’8 e il 9 febbraio, giorno del mio compleanno. La mattina presto vengo svegliata da i miei. “ C’è una sorpresa “, disse mamma “ papà ti ha ordinato la neve “.
Mi alzai, papà mi portò in braccio alla finestra, guardai attraverso i vetri freddi, tutto era bianco e immobile, Alemanno per fortuna ancora non c’era.
Ho amato quella casa, la vita di quegli anni, la scuola dalle suore con la divisa blu, ancora troppo piccola per sentire l’ansia che poi, negli anni, avrei provato.



























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